La violazione di marchio: inibitoria anche senza colpa

La violazione di marchio – inibitoria anche senza colpa – concorrenza e marchio – divieto di appropriazione di pregi

di Tommaso Panozzo e Giovanni Adamo

In data 15 febbraio 2021, la sezione Specializzata in materia di imprese del Tribunale di Genova ha affrontato un interessante caso di rapporti tra concorrenza e marchio, in materia di commercializzazione abusiva di prodotti oggetto di privativa industriale. Si è statuito, in particolare, come la violazione vada sanzionata (in via d’urgenza) anche a prescindere dall’elemento soggettivo, ed è stata riconosciuta un’ inibitoria anche senza colpa del concorrente, avendo quest’ultimo comunque violato il divieto di appropriazione di pregi di cui all’art. 2598, n. 2, c.c..

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La violazione di marchio ed il divieto di appropriazione di pregi: la vicenda

Una società americana, titolare di un brevetto europeo su di una particolare tipologia di vite, aveva agito contro un venditore, un grossista e un rivenditore al dettaglio, che avevano messo in commercio uve della varietà oggetto di privativa, etichettate con una diversa denominazione rispetto a quella registrata dal titolare dei diritti. L’attrice lamentava la violazione del brevetto europeo, la violazione del marchio registrato con cui il prodotto viene identificato e il compimento di condotte sleali dal punto di vista concorrenziale.

La decisione del Collegio

Nel caso di specie, il Collegio ha rilevato la commercializzazione non autorizzata di merci oggetto di privativa, accogliendo quindi la richiesta dell’attrice di inibire le convenute dal proseguire la commercializzazione del bene.

“L’inibitoria prescinde dalla buona o dalla mala fede”

In particolare, ha ritenuto il Tribunale che “deve essere accolta nei confronti di tutte le parti convenute la domanda di inibitoria, che, come è noto, appresta una tutela reale al diritto di privativa, che prescinde dallo stato soggettivo di buona o mala fede del soggetto agente ( cfr. Cass. 20 gennaio 2014 n.5722 che in materia di marchio ha stabilito che “le situazioni soggettive, quali il dolo, la colpa, la buona fede, di chi usa un marchio altrui senza averne il diritto, possono assumere rilevanza solo ai fini dell’accoglimento o meno dell’Azione (personale) di concorrenza sleale e di risarcimento del danno proposta contro il responsabile, ma sono del tutto irrilevanti ai fini dell’azione diretta ad impedire l’usurpazione o la contraffazione del marchio, che è un’azione di carattere reale avente ad oggetto immediato e diretto la tutela della titolarità esclusiva del bene immateriale destinato al servizio di un’impresa, nei confronti di chiunque ponga in essere un fatto oggettivamente lesivo di quella titolarità, indipendentemente dalla sua buona fede.” Il principio è applicabile anche alla tutela di varietà vegetale che al pari del marchio è annoverata fra i diritti di proprietà industriale dall’art. 1 c.p.i. e gode degli stessi strumenti di tutela)“.

Il Collegio ha invece negato che le convenute avessero violato l’art. 120, comma 3, c.p.i., secondo il quale “il commerciante può apporre il proprio marchio alle merci che mette in vendita, ma non può sopprimere il marchio del produttore o del commerciante da cui abbia ricevuto i prodotti o le merci”. I Giudici hanno infatti ritenuto che la violazione contestata “presuppone, infatti, la commercializzazione di un prodotto originale da cui sia stato asportato il marchio legittimamente apposto, mentre, nel caso in esame, il prodotto è frutto di uso non autorizzato di varietà protetta e con tale non può considerarsi prodotto originale ossia legittimamente realizzato”.

Per quanto attiene ai profili di concorrenza sleale, il Collegio ha ritenuto che non ci sia stata alcuna violazione ai sensi dell’art 2598 n.1 c.c., dal momento che le convenute non avevano fatto alcun uso del marchio dell’attrice, mentre la commercializzazione del prodotto con un marchio diverso rispetto a quello costituisce “appropriazione dei pregi e delle caratteristiche della varietà protetta che i consumatori potevano apprezzare nel prodotto che veniva loro venduto” (art. 2598, n. 2, c.c.).

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